Le poesie più belle di Salvatore Quasimodo

Salvatore Quasimodo è stato uno dei poeti italiani, esponenti dell’ermetismo, di maggiore successo. Nel corso della sua carriera come traduttore e poeta Salvatore Quasimodo conquista il premio Nobel per la letteratura nel 1959, grazie alla sua abilità d’espressione delle tragedie umane di quel periodo.

La poesia ermetica di Salvatore Quasimodo fu introdotta inizialmente in un senso dispregiativo prima di assumere, in seguito, un atteggiamento pratico e puro indirizzata verso l’assenza del silenzio.

Vita del poeta

Salavtore Quasimodo nacque il 20 agosto del 1901 a Modica, dai genitori Gaetano Quasimodo e Clotilde Ragusa. Nel 1916 si iscrisse all’istituto Tecnico Matematico-Fisico di Palermo, per trasferirsi in seguito a Messina. Nel 1919 Salvatore Quasimodo si diplomò presso l’Istituto “A. M. Jaci”. Nel 1917 fondò il ‘Nuovo Giornale Letterario’ insieme al giurista Salvatore Pugliatti e al futuro sindaco di Firenze Giorgio La Pira.

Nel 1919 il poeta si trasferì a Roma, collaborando con diversi periodici, assunto nel 1926 dal Ministero dei lavori pubblici in veste di geometra nel territorio di Reggio Calabria. Salvatore Quasimodo sposò Bice Donetti, deceduta nel 1946, risposandosi due anni più tardi con la ballerina Maria Cumani.

Nel 1939 il poeta divenne il titolare del settimanale Omnibus, lasciando la sua carriera come geometra per dedicarsi completamente alla letteratura. Nel 1941 l’amore per la poesia e la traduzione lo portarono alla nomina di professore di Letteratura italiana, presso il Conservatorio di musica milanese “Giuseppe Verdi”, pubblicando negli anni diverse opere letterarie.

Poesie più belle di Salvatore Quasimodo

Ed è subito sera

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera

Alle fronde dei salici

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

Oboe sommerso

Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.

Un òboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;

in me si fa sera;
l’acqua tramonta
sulle mie mani erbose.

Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,

e i giorni una maceria.

Uomo del mio tempo

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Vento a Tindari

Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima

A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.

Isola

Di te amore m’attrista,
mia terra, se oscuri profumi
perde la sera d’aranci,
o d’oleandri sereno,
cammina con rose il torrente
che quasi n’è tocca la foce.
Ma se torno a tue rive
e dolce voce al canto
chiama da strada timorosa
non so se inerzia o amore,
ansia d’altri cieli mi volse,
e mi nascondo nelle perdute cose.

Imitazione della gioia

Dove gli alberi ancora
abbandonata più fanno la sera,
come indolente
è svanito l’ultimo tuo passo
che appare appena il fiore
sui tigli e insiste alla sua sorte.

Una ragione cerchi agli affetti,
provi il silenzio nella tua vita.

Altra ventura a me rivela
il tempo specchiato. Addolora
come la morte, bellezza ormai
in altri volti fulminea.
Perduto ho ogni cosa innocente,
anche in questa voce, superstite
a imitare la gioia.

Lettera alla madre

Mater dolcissima, ora scendono le nebbie, il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve; non sono triste nel Nord:
non sono in pace con me, ma non aspetto perdono da nessuno,
molti mi devono lacrime da uomo a uomo.
So che non stai bene, che vivi come tutte le madri dei poeti,
povera e giusta nella misura d’amore per i figli lontani.
Oggi sono io che ti scrivo:
Finalmente, dirai, due parole di quel ragazzo che fuggì di notte
con un mantello corto e alcuni versi in tasca.
Povero, così pronto di cuore lo uccideranno un giorno in qualche luogo.
Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo di treni lenti che
portavano mandorle
e arance, alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze, di sale,
d’eucalyptus.
Ma ora ti ringrazio, questo voglio, ell’ironia che hai messo sul mio labbro,
mite come la tua. Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te, per tutti quelli che come te
aspettano, e non sanno che cosa.
Ah, gentile morte, non toccare l’orologio in cucina che batte
sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto del suo quadrante,
su quei fiori dipinti: non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde?
O morte di pietà, morte di pudore.
Addio, cara, addio, mia dolcissima Mater.

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